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Conversation with Anna Leonardi
This interview, conducted in Italian, was published in the March issue of Tracce. You can find an English version, published here, below.
Le relazioni non sembrano godere di una buona salute oggi. Molte analisi concordano sul diagnosticare nell’individualismo sfrenato la causa principale dei sintomi di sfiducia, incomunicabilità, invidia, solitudine. Cosa ne pensa?
Mi sembra un quadro cupo. Perlomeno parziale. Certo, queste esasperazioni esistono, ma ci sono anche delle tendenze molto sane. Quello che noto durante la mia attività pastorale è una ricerca di socialità, di comunione anche nei contesti più laici. Qui in Norvegia il dato del volontariato è molto in crescita: fiorisce la voglia di fare con l’altro e per l’altro. Questo significa che la tendenza individualistica della postmodernità non è tutto, c’è anche la percezione che stare imprigionati in sé stessi non è un cammino che ci porta alla felicità.
Cosa significa in questo contesto parlare di affettività, amore, amicizia?
Oggi trovo cruciale soprattutto comprendere l’amicizia. Siamo in un tempo in cui le relazioni intime sono ridotte a erotismo o sentimentalismo e questo le rende fugaci, provvisorie. L’amicizia ha invece, un aspetto più razionale, è un’affinità elettiva. È un tipo di relazione dove è più facile sorprendere quell’anelito a trovare un fondamento stabile e in cui si intuisce che la propria personalità può nutrirsi e costruirsi. In fondo, la santità cristiana si identifica come capacità di amicizia. Cristo ci ha detto: «Voi siete miei amici. Vi ho chiamati amici». L’amicizia è un ambito privilegiato dove possiamo allenarci e imparare a vivere tutte le altre relazioni.
Vede testimonianze di questo oggi?
Sì, per questo non mi sento disperato. Forse noi nel Nord d’Europa, che abbiamo sempre vissuto in anteprima le varie tendenze delle società occidentali, oggi stiamo risalendo la china e vediamo la luce in fondo al tunnel. Anche se molti sembrano bloccati, il desiderio di costruire relazioni e il riconoscersi dipendenti gli uni dagli altri appare come un punto irriducibile, un seme da cui può generarsi una novità che rende il mondo più umano.
Lei ha appena pubblicato un libro dal titolo Chastity dove afferma che dobbiamo «all’allargare all’infinito il range del nostro desiderio. Solo così impariamo a cercare risposte adeguate per cui la nostra carne si strugge e risparmiarci continue frustrazioni». Può approfondire questa dinamica?
Il desiderio è l’espressione del nostro essere stati fatti da Dio. È qualcosa di intrinseco alla natura umana. Siamo abitati da un’eco, una chiamata. È il Signore che fa cantare in noi la somiglianza con Lui. Il desiderio è il motore della mia vita perché la orienta a una pienezza, che è la comunione con Dio vissuta anche nelle relazioni con gli altri. Il nostro peccato è un sabotaggio del desiderio, che si frammenta verso tanti oggetti diversi. Ma se guardiamo dove ci porta quel desiderio profondo, ci accorgiamo della relatività di tutte le cose che non sono sufficienti a compierlo. E, nel contempo, le riconosciamo nel loro valore più vero, perché solo alla luce di ciò che disseta la vita, anche ogni piccola cosa rivela il suo significato.
C’è un episodio nella vita di don Giussani che lo portò all’intuizione simile. Era una sera d’estate carica di stelle, e lui uscendo dalla sua parrocchia in bicicletta, sorprese due fidanzati abbracciati. Dopo qualche pedalata si fermò e domandò: «Sentite, quello che state facendo, cosa c’entra con le stelle?». Anni dopo commentando quel momento, disse: «Quella sera sono andato via lieto, perché avevo scoperto cos’era la legge morale: il nesso tra la banalità dell’istante e l’ordine dell’universo».
Mi trovo assolutamente d’accordo con questa sua osservazione. Il nesso con l’interezza di sé e con l’universo è la chiave per vivere l’amore e ogni rapporto con la pazienza e il sacrificio. Per un cristiano niente può essere banale, tutto viene ricompreso, se vissuto alla luce dello scopo ultimo, che è il bene del mondo. Questo brano mi fa venire in mente l’ultimo romanzo di Marlyn Robinson Jack, dove il protagonista, il dissennato figlio di un reverendo del Missouri degli anni ‘50, una notte incontra una giovane donna Della. Jack si offre di starle vicino ma a debita distanza, in modo da proteggerla e non metterla a disagio. I due passano la notte a parlare e c’è un momento apicale in cui lei lo guarda come nessuno aveva mai fatto, non è più uno sconosciuto ma «un’anima, una presenza gloriosa fuori posto nel mondo». Jack si sente visto – come era veramente – dentro l’essere ed è trascinato, suo malgrado, a diventarne consapevole. Sapeva che c’era qualcosa in lei che richiamava in modo unico qualcosa in lui. Ed è questo il nesso con lo scopo di cui parla Giussani.
Da cosa ripartire quando ci scontriamo con la debolezza e la fragilità, nostra e altrui, e allentiamo questa tensione ultima?
Nel contesto monastico abbiamo due momenti della giornata dedicati all’esame di coscienza. Cosa ne ho fatto delle possibilità a me date per vivere oggi? Come ho vissuto i rapporti con le cose, con i fratelli? Questa autoconoscenza è un passo necessario perché mi fa stare più attento a me stesso e agli altri. E all’impatto che quello che faccio o non faccio può avere sugli altri. I Padri la chiamano “umiltà”, che altro non è che un sano realismo che ci fa dire addio a tutte le immagini che ci costruiamo di noi stessi. Questo è reso più difficile nel mondo virtualizzato in cui viviamo dove concepiamo noi stessi in termini idealizzati. La capacità di guardare a me stesso per come sono è il primo passo per stare davanti all’altro. Di cui inizio a sentirmi responsabile.
Che cosa vuol dire?
Se concepisco me stesso come il sole in universo fatto di stelle estinte, rimarrò sempre l’unico soggetto di un rapporto. Certo magari mi accorgo che gli altri esistono, ma non riconosco loro alcun significato. Invece se mi scopro fatto per la relazione, mi scopro anche responsabile di quella relazione. Posso essere fonte di bene per la vita dell’altro, ma posso anche infliggere ferite profonde. Ci sono rapporti, penso a quello tra genitori e figli, dove questo è molto chiaro. È una relazione reciproca dove però potrebbe capitare che un padre o una madre debbano rinunciare all’essere visti, o addirittura accettare un abbandono. È possibile compiere questo sacrificio rimanendo fermi nel proprio proposito d’amore, che significa tenere sempre la porta aperta. Si tratta di un discorso delicato, perché ci può essere la tendenza malsana a sacrificarsi per salvare l’altro. Ricordiamoci che c’è un unico salvatore, e non sono io e che ci sono rapporti che solo la pazienza può guarire. Questo vale anche per gli sposi. L’essere umano diventa veramente umano quando esprime questo ultimo sentimento di dedizione al bene dell’altro. Invece noi siamo dediti a reclamare i nostri diritti, a cantare le litanie dei nostri traumi.
Ha scritto che Maria Maddalena sarebbe la «patrona perfetta del ventunesimo secolo». Perché?
Questa donna è una “guarita”. Guarita da ferite profonde. Una che ha fatto una “scuola di amore”, che prima di tutto è una scuola di libertà che l’ha resa capace di intimità e di distacco insieme. Lei entra sulla scena del Vangelo piena della sua sete, di amare e di essere amata. L’incontro con Cristo trasforma il senso del suo desiderio più profondo, anche se il processo richiede tempo. Maria Maddalena ascolta e impara. Il suo cammino da donna vulnerabile a testimone della Resurrezione è qualcosa che il nostro tempo ha bisogno di guardare.
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These are words that suggest a way forward in an ultra-secularised society, where relationships between people can turn into a swamp when they are used to fill a void, rather than to share a superabundance.
Relationships today do not seem healthy. Many analyses agree on diagnosing unbridled individualism as the main cause of the symptoms of distrust, incommunicability, envy, loneliness. What do you think?
It is too gloomy a picture. At least a one-sided picture. Of course, these exasperations exist, but there are also very healthy tendencies. What I notice during my pastoral activity is a search for togetherness, for communion even in the most secular contexts. Here in Norway the number of people seeking voluntary work is on the rise: the desire to do things with and for others is flourishing. This means that postmodernity’s individualistic tendency is not everything, there is also the perception that being imprisoned in oneself is not a path to happiness.
What does it mean in this context to talk about affectivity, love, friendship?
Today I find it crucial above all to understand friendship. We are in a time when intimate relationships are reduced to eroticism or sentimentality and this makes them fleeting, temporary. Friendship, on the other hand, has a more rational aspect, it is an elective affinity. It is a type of relationship where it is easier to discover our yearning for a stable foundation in which one can sense that one’s personality is nourished and built up. Ultimately, Christian holiness is identified as the capacity for friendship. Christ told us: ‘You are my friends. I have called you friends.’ Friendship is a privileged area where we can practise and learn to live all other relationships.
Do you see evidence of this today?
Yes, that is why I do not feel desperate. Perhaps those of us in northern Europe, which has always experienced the various trends of western societies in advance, are now moving up the slope and see the light at the end of the tunnel. Although many seem to be stuck, the desire to build relationships and to recognise that we are dependent on each other appears to be irreducible, a seed from which something new can be generated that makes the world more human.
In your latest book, Chastity, you state that we need to “broaden (infinitely) the range of desire. Only thus can we learn to seek proportionate responses to what our flesh faints for and to spare ourselves repeated frustration.” Can you elaborate on this dynamic?
Desire is an expression of our being made by God. It is something intrinsic to human nature. We are inhabited by a resonance, a call. It is the Lord who makes the likeness of Himself sing in us. Desire is the engine of my life because it directs me towards integrity, which is communion with God lived also in relationships with others. Sin sabotages desire, fragmenting it towards many different objects. But if we look where our deep desire takes us, we realise the relativity of all the things that are insufficient to fulfil it. And, at the same time, we recognise them in their truest value, because only in the light of that which quenches life’s thirst do even every little things reveal their meaning.
There is an episode in Fr. Giussani’s life that led him to have a similar intuition. It was a summer evening full of stars, and as he was leaving his parish on his bicycle, he surprised a couple embracing. After a few pedal strokes he stopped and asked them: “Excuse me, what does what you are doing have to do with the stars?”. Years later, commenting on that moment, he said: “I cycled away rejoicing because I had discovered what the moral law was: it is the link between the triviality of the instant and the complex of factors that make up the universe.”
I find myself in agreement with his observation. The link with the wholeness of self and the universe is the key to living love and every relationship with patience and sacrifice. For a Christian, nothing can be trivial, everything is understood anew, if lived in the light of the ultimate purpose, which is the good of the world. This passage reminds me of Jack, the latest novel by the American writer Marilynne Robinson, where the protagonist, the prodigal son of a 1950s Missouri Reverend, one night meets Della, a young woman. Jack offers to stay close to her but at arm’s length, so as to protect her and not make her uncomfortable. The two spend the night talking and there is a pivotal moment when she looks at him as no one ever has; in her eyes he is not a stranger but “a soul, a glorious presence out of place in the world.” Jack feels himself being seen as he really is, inside his being. He is drawn, despite himself, to become aware of it. He knows that there is something in Della that uniquely recalls something in him. And this is the link to purpose that Giussani speaks of.
What do we re-start from when we come up against weakness and frailty, our own and others’, and start relaxing this ultimate tension?
In the monastic context, two moments during the day are dedicated to the examination of conscience. What have I done with the possibilities given to me today? How have I lived my relationships with things, with my brothers? This self-knowledge is a necessary step because it makes me more attentive to myself and to others. And to the impact that what I do or do not do can have on others. The Fathers call it ‘humility’, which is nothing more than a healthy realism that makes us say goodbye to all the images we construct of ourselves. This is made more difficult in the virtualized world we live in which we conceive of ourselves in idealised terms. The ability to look at myself as I am is the first step to standing in front of the other. For whom I begin to feel responsible.
What does that mean?
If I conceive of myself as the sun in a universe of extinct stars, I will always remain the sole subject of a relationship. Sure, I may realise that others exist, but I do not see them as meaningful. Instead, if I discover that I am made for relationship, I also discover myself responsible for relationships. I can be a source of good for the other’s life, but I can also inflict deep wounds. There are relationships – I am thinking of those between parents and children – where this is very clear. It is a reciprocal relationship where, however, it may happen that a father or mother has to give up being seen, or even accept abandonment. It is possible to make this sacrifice by remaining firm in your loving purpose, which means always keeping the door open. This is a delicate matter, because there can be an unhealthy tendency to sacrifice oneself to save the other. Let us remember that there is only one saviour, and it is not me, and that there are relationships that only patience can heal. This also applies to spouses. Human beings become truly human when they express this ultimate feeling of dedication to the good of the other. Instead, however, we tend to be dedicated to claiming our rights, to singing the litany of our traumas.
You wrote that Mary Magdalene would be “an excellent patron saint for the twenty-first century.” Why?
This woman is a ‘healed’ woman. Healed from deep wounds. Someone who went through a ‘school of love’, which first and foremost is a school of freedom that made her capable of both intimacy and detachment. She enters the Gospel scene full of her thirst to love and to be loved. Her encounter with Christ transforms the meaning of her deepest longing, even if the process takes time. Mary Magdalene listens and learns. Her journey from a vulnerable woman to a witness of the Resurrection is something our time needs to consider.